Fino ai 19 anni mi vantavo di conoscere perfettamente ogni via da piazzale Loreto ai bastioni di Porta Venezia, e avevo un’idea di tutto quello che stava a est di una linea invisibile che taglia a metà Milano.
Ho conosciuto Sant’Ambrogio per l’università, ma tutto il resto è stato hic sunt leones.
Poi da Lima mi sono spostata a Lambrate, ancora più a est, dove stavo bene fino a che non ho avuto la necessità viscerale di raggiungere un punto diametralmente opposto a dove vivevo per incontrare qualcuno, in un periodo in cui incontrare le persone era assolutamente vietato.
Era l’autunno 2020, e avevo l’autocertificazione per andare al lavoro. Mi facevo sei chilometri in bici fino a piazza Duomo. Da lì, potevo pedalare quattro chilometri in direzione ovest.
All’epoca il centro era semideserto. Ascoltavo distrattamente, maledicendo ogni volta il pavè di via Meravigli, mio primo nemico dai tempi dell’università. Superata Santa Maria delle Grazie, mi sembrava di entrare in una Milano diversa, dall’atmosfera più borghese, più raccolta.
Corso Vercelli mi dava l’idea di essere il padre austero di Corso Buenos Aires, con le boutique eleganti e i negozi di pregio. Piazza Piemonte non l’avevo mai vista, non ero mai stata in quella Feltrinelli dove andavano gli autori famosi per i firmacopie, preferendo la filiale di Buenos Aires, il mio parco giochi da bambina.
Imboccare via Marghera è capire qual è l’immagine stereotipata di Milano e i milanesi che hanno chi li odia. Una vietta stretta e corta piena di bauscia che hanno parcheggiato il suv in doppia fila solo per un aperitivo o un gelato. Non avevo mai visto tante sciure impellicciate col bassotto al guinzaglio tutte insieme, prima di percorrere via Marghera.
Sapevo che una volta oltrepassato viale Bezzi ero quasi arrivata, mancava un piccolo sforzo di gambe. Guardavo il Pio Albergo Trivulzio con curiosità, per via di tangentopoli. Dopo piazza Gambara, gli immobili signorili lasciano spazio a condomini costruiti negli anni Cinquanta e Sessanta, per dare un tetto a chi veniva dal Meridione per lavorare qui.
In un appartamento di queste palazzine mi aspettava Jacopo, che si era trasferito da Rozzano.
Lasciai la casa di Lambrate e i miei coinquilini, per stabilirmi nell’enorme piazzale dal lato opposto a tutto ciò che avevo chiamato casa a Milano. La zona mi era inospitale e sconosciuta: il mio unico punto di riferimento era la casa di Cecilia, a pochi minuti. L’inverno del lockdown passò duro e dolce, segnando il mio terzo trasloco a Milano.
Chi sono queste persone che mi vivono intorno, in questo enorme condominio? Mah. Nel palazzo dove sono cresciuta, gli appartamenti dei vicini erano quasi un’estensione di casa nostra.
Una notte io e Jacopo sentimmo grida e tonfi dall’appartamento sopra il nostro. Poco dopo scoprimmo che lì viveva un gruppo di egiziani, di cui alcuni spacciavano. Occupavano abusivamente l’appartamento da alcuni mesi, e avevano il brutto vizio di guastare l’ascensore. Un giorno che ero stufa di fare sei piani di scale, salii da loro al settimo piano per presentarmi e chiedergli di fare attenzione all’ascensore. Loro mi aprirono e si trovarono davanti una ragazza sovrappeso e paonazza che gli spiegò quanto odiasse fare le scale. Da quel giorno mi salutarono, io appesi un cartello con la scritta in arabo “Chiudere bene le porte in ascensore”, ma lo trovavamo guasto comunque almeno una volta a settimana.
Anche il signore del quinto piano era uno spacciatore. Lui però era più tranquillo, ma aveva un cane che faceva un puzzo tremendo. Comunque, salutava sempre.
Nell’inverno del lockdown, Milano Ovest per me rappresentava solo i supermercati dove una volta ogni dieci giorni io e Jacopo andavamo a piedi a fare provviste, nella mestizia generale.
Il Carrefour di fronte, la Lidl di viale Bezzi, l’Esselunga di via Morgantini, che a Jacopo non piaceva perché gli sembrava un suk. A me piaceva proprio per questo, mi ricordava il mercato di Amman.
A poco a poco allentarono le restrizioni e cominciai ad uscire in quartiere. Facevo fatica ad ambientarmi, e mi rimproveravo di essere incoerente e viziata: mi ero sentita casa a Istanbul, Leida e Amman, ed ora facevo la schizzinosa con Milano Ovest.
La prima volta che andai al Parco delle Cave ero con Lorenzo, che da Catania era riuscito ad ambientarsi con molti meno problemi di me ad ovest. Il parco era enorme, a tratti selvatico, e non riuscivo a credere che fosse in città.
Ma a marzo 2021 cominciai a lavorare in un ufficio di via Donatello, a Milano est, e ogni giorno mi ritrovavo a passare i luoghi del mio passato, per poi tornare dall’altro lato ogni sera.
Persi interesse nell’esplorare Milano ovest. Poi, un giorno che non ricordavo più il sapore della frutta e della verdura, andai al mercato di via Osoppo. Un giorno che mi si ruppe la bicicletta, dal ciclista di via Pisanello. E poi il cinema a CityLife, le partite a San Siro, e la piscina Cardellino d’estate.
Ci sono un sacco di cose interessanti qui, e altrettanti scoiattoli.
Oggi ho tutto quello che mi serve qui, ma mi sento ancora un’esploratrice di questa mia Milano Ovest, di cui il mio piazzale segna il confine tra il lato borghese e quello popolare.
Dall’altra parte, c’è il quadrilatero Aler delle case popolari. L’ho attraversato decine di volte, a piedi, in bici, o in bus. Tutti dicono che è pericoloso, ma per fortuna faccio presto a sentirmi al sicuro a casa mia. Le sere d’estate c’è il profumo del gelsomino e i bambini giocano per strada mentre le madri chiacchierano.
Domenica scorsa volevo fare due passi, e sono andata al centro del quadrilatero, in piazza Selinunte. Nel parcheggio di Viale Aretusa c’è chi vive in una roulotte, e mi sentivo come se stessi invadendo la loro privacy passeggiando davanti a loro mentre stendevano il bucato per strada.
In piazza Selinunte c’è una tavola calda che mi ha sempre fatto gola: è piena di uomini, che mi guardano strano e abbassano un po’ il loro vociare quando entro. Che stiano pensando che sono dei NAS?
Ma non fanno thè o caffè, e ripiego sul bar dall’altro lato della piazza. Ci sono solo uomini, seduti fuori a chiacchierare in arabo. Chiedo di pagare due euro di the nero con apple pay, e l’uomo che stava seduto con gli altri e che si è alzato per prendere il mio ordine mi guarda come se fossi un’aliena. Mi dispiace invadere i vostri spazi, penso, ma purtroppo per voi siete l’unico bar aperto la domenica pomeriggio vicino a casa mia.
Mi siedo e alla tv danno la Supercoppa d’Egitto, e mi gaso ogni volta che capisco una parola delle telecronaca. Poi decido che gli egiziani hanno sofferto abbastanza della mia presenza, e torno a casa.
Stamattina invece avevo voglia di pedalare e sono andata a Baggio per la prima volta. L’ho sempre vista come lontana, ma è la stessa distanza che faccio tutti i giorni per andare in ufficio. Percorro tutta via delle Forze Armate, e di colpo mi ritrovo in una stradina di paese. Fermo la bici in mezzo alla stradina per far passare un signore anziano sulla sua vecchia bici, e i compari del bar tabacchi lo prendono in giro, chiamandolo giovanotto e rimbrottandogli di andare in contromano.
Ammiro le maioliche sui muri, le vecchie case di ringhiera, e per un istante sento odore di campagna.
È questa la mia parte di città?