Come si porta il lutto?
Ripubblico questa cosa scritta quattro anni fa, per dedicarla a Francesca e alla sua famiglia.
Premessa: oggi sono undici anni che papà non c’è più. Quando è successo, pensavo che sarei soffocata dal dolore, ed invece eccomi oggi a blaterare e a mangiare troppo come al solito.
L’anno dopo papà, ho perso nonna Lela, e pochi giorni fa nonno Bruno. Dal 2013, ho dovuto salutare anche altre persone care: Ginevra, Eugenio, Patricia, Yvonne, Maurizio, Wolly, Angela e Gianna.
Io rimango qui, e annaspo un po’, perché ogni volta che perdo qualcuno con cui ho condiviso qualcosa, mi sembra di perdere un pezzo di me, come se fossi la somma di tutti quegli incontri.
Mi dimentico un po’ come si respira perché ho l’ansia di perdere me stessa insieme a chi ci lascia.
Però vado avanti, a volte presente a me stessa, il più delle volte in apnea per non sentire il dolore, e poi finisce che mi svuoto.
Quando ho conosciuto Jacopo ho visto nei suoi occhi la stessa apnea e lo stesso vuoto, e ho pensato che con lui potevo nuotare, e adesso che ci conosciamo da quattro anni abbiamo gli occhi pieni.
D’altra parte se sono qui, è perché la me stessa di diciassette anni che aveva appena perso papà aveva torto: non sono soffocata dal dolore.
A settembre ho rivisto Francesca, che ha perso il figlio in un incidente. Lei, suo marito e i suoi altri due figli sono rimasti a fare i conti l’assenza. A cercare di dare un senso alle nostre vite rimaste.
Ieri sera mi ha detto che è stufa di consolare gli altri per la morte di suo figlio. Le ho detto che anche io un po’ di volte avevo dovuto consolare altri per la morte di papà, e che era davvero una rottura di palle.
Non capirò mai come si sente, ma spero che smetta di sentirsi soffocare anche lei. Quindi questa cosa che ho scritto quattro anni fa la dedico a lei e alla sua famiglia, oltre che alle persone a cui l’avevo dedicata allora.
Come si porta il lutto?
Riflessione semiseria scritta per Annamaria, Paola, Carmen, Daniela, Barbara, Annarita ed Eleonora (e per me).
All’inizio si porta come un cappotto pesante e soffocante. Lo indossi controvoglia: l’estate è finita e le temperature che scendono ti impongono di coprirti.
Con tua sorpresa ti abitui al cappotto, ma ormai fa talmente freddo che devi aggiungere uno sciarpone di lana. Un po’ ti rifuggi nel caldo della sciarpa, alla fine ti protegge dal gelo fuori.
Gli stivali che indossi, poi, sono scomodi ma devi portarli o ti si congelerebbero i piedi.
Bardata di giaccone, sciarpa e stivali, vai avanti a tentoni nella nebbia ghiacciata.
Dopo un po' la temperatura si alza, ma arriva la pioggia. E allora il lutto diventa un impermeabile rigido e plasticoso. Le gocce di pioggia ti si insidiano comunque giù per il collo, i piedi ti si bagnano nelle pozzanghere, e devi portarti ovunque l’ombrello.
E lo perdi.
E lo ricompri.
E te lo rubano.
E non passa più.
Tu sei fradicia, con un impermeabile scomodo e un ombrello rotto e fuori la pioggia continua. Che strazio.
Poi smette di piovere. Tu ormai sei a terra, ma una botta di ottimismo ti fa tirare fuori la tua giacchetta di pelle preferita. Ora è questo il tuo lutto: ce l’hai sempre addosso, non te ne separi mai, non puoi uscire senza. Lo porti talmente tanto che ti sembra che non potrà più essere diversamente.
Finché un giorno esci, e fa troppo caldo per la giacca di pelle: te la togli.
E rimani lì, in maglietta, a sudare con la giacca in mano, a disagio perché non sai più come portare il lutto.
Ormai fa troppo caldo e non puoi più coprire niente.
Indossi una camicetta di lino leggera e prima di uscire ti guardi allo specchio: allora capisci che il tuo lutto, dopo averlo portato con tutti quegli strati, ti è rimasto sulla pelle. Ci convivrai ma non ne sarai più oppressa.
Un giorno porterai il lutto come un cappotto, un altro giorno come una giacca di pelle, un altro ancora come del lino leggero; non necessariamente in quest'ordine.
Sappi solo che l'inverno non dura per sempre e alla fine smette di piovere. Per forza.
Cara Rebecca
ti ringrazio per questo caro pensiero.
Sai, quando ero piccola sentivo dire, di chi aveva perso una persona cara, che “avesse portato il lutto per un anno, per due anni, per tre anni…” e questo “portare il lutto” era un fattore evidente a tutti, perché la persona si vestiva di nero come il suo malessere e questo comportava una sorta di accettazione implicita da parte della comunità. Ciò che mi fa riflettere nell’affrontare e attraversare questa tragedia è che non ci diamo più il tempo nemmeno per “portare il lutto”, sembra che questo crei disagio, imbarazzo, incertezza e si ha fretta che la persona si rialzi e impari a “portare il lutto” con una certa sobrietà riducendo all’osso questo tempo di malessere per essere nuovamente performante.
Tutti, anche con le migliori intenzioni, vorrebbero toglierti quell’alone, quelle lacrime che dopo sei mesi dalla perdita di Jacopo scendono forse ancora di più perché la mancanza la vivi ancora più forte, ma se si usasse ancora “portare il lutto” forse, questo avverrebbe meno, perché sarebbe evidente che chi vive la tragedia sa che gli serve tempo per attraversarla.
Cara Rebecca non so cosa significhi perdere un padre a 17 anni e mi spiace non abbia vissuto i tuoi successi, le tue cadute e sognato con te per i tuoi progetti come ti saresti immaginata, so che il dolore è intimo e che il mio è diverso dal tuo così come oggi è diverso da quello dei miei figli, che hanno perso il loro fratello, gemello.
Penso sia innaturale pensare di morire dopo un figlio, di dover vivere una vita con questo peso. Puoi anche sforzarti di aspettare la luce alla fine della tempesta, aiuterebbe forse la fede, ma per un genitore sarà sempre un ripiego per sopravvivere, per non annegare perché noi genitori siamo cosi, passiamo buona parte della vostra vita con il desiderio di vedere i vostri successi, le vostre cadute e ascoltare i vostri progetti.
Sono certa che il dolore va attraversato e cambierà forma per imparare a convivere con questo vuoto e trovare le risorse per andare avanti.
Forse più è grande il dolore più ci vorrà tempo ❤️